L'11 luglio 2014, prima dell'apertura delle Borse, arriva l'annuncio della vendita della Indesit all'americana Whirlpool, dopo un anno e mezzo di rumors e dopo addirittura dieci dal primo tentativo di fidanzamento (poi fallito all'ultimo). Il confronto seguiva di pari passo l’evoluzione delle condizioni di salute di Vittorio, colui che ha reso Indesit un marchio globale creando a Fabriano un vero e proprio distretto del bianco. A ben vedere la decisione di un’allenza con Whirlpool, l'azienda del lago Michigan, primo produttore al mondo di merce bianca, era stata vagliata proprio da Vittorio una decina di anni prima.
Ma il disegno di Vittorio, a differenza di oggi, sostanzialmente prevedeva che lui stesso restasse al timone di una nuova realtà attraverso un’offerta pubblica di scambio che avrebbe consentito alla famiglia Merloni di convertirsi nel primo azionista di un gruppo con una posizione di leadership in Europa. Quel progetto si arenò proprio all’ultimo per volontà di Vittorio che non era convinto delle condizioni finanziarie, ma l’intuizione originaria era giusta perché prevedeva la crescita a doppia cifra dei marchi asiatici come Samsung, Lg, Haier capaci in sette anni di sparigliare totalmente il mercato e diventare dei leader planetari del settore. Il controllo della società di Fabriano passa al gruppo americano che rileva il 66,8% delle azioni con diritto di voto, corrispondenti al 60,4% del capitale con un investimento di 758 milioni di euro e un premio del 5% sui valori di Borsa degli ultimi sei mesi. Whirpool lancerà poi un'Opa sulle rimanenti azioni Indesit. Alla fine del mese di ottobre, mentre gli americani si apprestano a salire al controllo totale della storica società di elettrodomestici, la Whirlpool svela, almeno in parte, i piani futuri sulla Indesit, parlando di un generale processo di "riorganizzazione" che non sembra escludere categoricamente la chiusura di qualche stabilimento. A fine novembre si chiude l'opa promossa da Whirlpool Italia sul 29,99% del capitale Indesit, salendo così al controllo del 97,42% del gruppo marchigiano. La vendita dell'ultimo colosso italiano del "bianco" segna simbolicamente un'epoca, che si chiude per sempre. È l'addio dei Merloni, famiglia storica che ha scritto a caratteri cubitali una pagina di industria italiana, alla propria creatura, ceduta con un assegno da 768 milioni di euro, per quella che sembrava la scelta migliore per garantire un futuro. Avrebbero potuto fare più cassa, avessero voluto solo pensare al prezzo, vendendo ai cinesi. Ma gli americani sembravano il partner industrialmente strategico migliore per l'azienda, che viene da una lunga tradizione di acquisizioni a livello familiare (Ignis, Maytag, Bauknecht....). Ma alla famiglia, che si era pure spaccata sul destino dell'azienda, va riconosciuto il merito di aver capito che rimanere da soli avrebbe sul medio termine compromesso la sopravvivenza. E che l'indipendenza non è più un valore, con un mercato sempre più globale, un'Europa (mercato di riferimento di Indesit) in caduta e la concorrenza asiatica a erodere sempre più margini.
Il punto di svolta iniziò nell'estate del 2012, quando, per le condizioni di cui sopra, ci si rese conto che Indesit non poteva stare da sola. Lo schema della multinazionale formato tascabile, dalla taglia minimal, non era più in grado di reggere più già prima che arrivasse la Grande Crisi che avrebbe portato con sé una riduzione del fatturato, di volumi di vendite e di quote di mercato fino ad allora impensabili. Era necessario un partner. Ci sono voluti due anni per convincere la famiglia, con il punto più basso toccato nell'autunno del 2013, quando in cda fu "bocciato" dagli indipendenti il piano industriale "stand alone". Indesit andava venduta a un partner con una grossa massa critica. Ci fu uno scontro durissimo tra la famiglia e il consiglio di amministrazione. La nomina di Aristide Merloni a tutore legale del padre Vittorio e nuovo capofamiglia, con il contestuale passo indietro del fratello Andrea ha portato alla svolta di fine 2013. Quando la famiglia decide di vendere, perché si rende conto che non si può più aspettare, e affida il mandato alla banca d'affari Goldman Sachs, di trovare un acquirente e per mesi secondo le indiscrezioni ci sarebbero stati fino a sette pretendenti,
Indesit company, un colosso da 16 mila dipendenti, con 14 stabilimenti. Negli anni ’90 diventa numero due in Europa, delocalizza in Russia e in Cina, ma conserva il 30% della produzione in Italia. Nel 2009 la crisi impatta duramente l’azienda, che perde il 17% dei ricavi. Nel 2012 utili e ricavi tengono ma solo grazie al mercato russo e a quello britannico; dove nel secondo ha comunque sofferto la competizione dove invece era fortissima con l’acquisizione di Hotpoint Ariston, mentre in Russia, si era vista assottigliare i margini dove il colosso sudcoreano Samsung ha fatto un vero e proprio dumping sui prezzi rosicchiando una buona fetta di mercato. Ecco, la spiegazione. Il risiko degli elettrodomestici prevede sempre più aziende di grossa taglia, vere e proprie conglomerate come Samsung che spaziano dai telefonini ai televisori fino alle lavatrici, ed inoltre senza l’effetto dell’euro forte il bilancio sarebbe in rosso. Nel 2013 l’amministratore delegato Marco Milani subentra alla presidenza ad Andrea Merloni e, per la prima volta, il timone dell’azienda non è più in mano alla famiglia Merloni. È un segnale importante, che si concretizza, poi con il passaggio agli americani.
“Whirlpool valuta i progetti di acquisizione basandosi su complementarietà strategica”, ha messo in evidenza Jeff Fettig, presidente e chief executive officer di Whirlpool Corporation. “Questa acquisizione - dichiarò nelle ore immediate dell'acquisizione - ci posizionerà in maniera ideale per una crescita sostenibile in un mercato altamente competitivo e sempre più globale quale quello degli elettrodomestici in Europa”.
Ma in questi giorni siamo di fronte al test chiave per l'integrazione fra le due aziende, che fino ad ora ha evidenziato comunque non pochi problemi, con i 2060 esuberi annunciati e "congelati" fino alla fine del 2018. Ora saranno i lavoratori, attraverso il referendum a dire se quella tracciata nell'accordo del 2 luglio 2015, potrà essere la strada maestra per garantire per il futuro la presenza sostenibile in Europa, dove nonostante la crisi, il mercato EMEA, vale qualcosa come 60 milioni di pezzi (80 se si considera l'Africa).