Le azioni tirano la
volata della pensione di scorta. Le linee più rischiose hanno offerto le
migliori performance nell’anno appena concluso. Ma tutto il comparto si è
comportato bene. Nel 2013 è stato pari al 6% il rendimento medio offerto dai
fondi pensione negoziali, aziendali o di categoria. Il Tfr nello stesso periodo
ha reso invece l’1,7%, al netto dell’aliquota dell’11%. La liquidazione
mantenuta in azienda si rivaluta con un tasso dell’1,5%, più il 75%
dell’inflazione. Anche nel medio termine la previdenza integrativa stacca il Tfr: fra il primo
gennaio 2000 e il 31 dicembre scorso, infatti, tutti i tre fondi maggiori
esistenti all’inizio del periodo considerato hanno battuto nettamente il 46,1%
della liquidazione. Il migliore è stato Fondenergia (energia e petrolio) con il
57%, seguito da Fonchim (chimica e farmaceutica) con il 51,9% e da Cometa
(industria metalmeccanica e orafa) con il 51,3%. «Il bilancio dell’anno scorso è molto positivo — sottolinea
Michele Tronconi, presidente di Assofondipensione, l’associazione che raggruppa
trentaquattro fondi negoziali —. I fondi pensione raggiungono buoni risultati
anche grazie alle spese decisamente contenute. I costi di struttura sono molto
bassi e non bisogna remunerare una rete di vendita, come nel caso degli altri
strumenti previdenziali». Proprio qui, però,
sta anche la loro debolezza. I fondi negoziali, che contano oltre 1,9 milioni
di aderenti, soffrono la concorrenza dei Pip (i Piani individuali di tipo
assicurativo), che con oltre 2 milioni d’iscritti sono balzati al primo posto
fra tutti gli strumenti previdenziali, anche grazie alle laute provvigioni per
gli intermediari che li collocano. «Nei fondi, invece, la promozione è affidata
agli uffici del personale delle aziende e ai sindacati — spiega Tronconi —. In
più soffrono le gravi difficoltà del mondo del lavoro, con molti dipendenti
licenziati o collocati in cassa integrazione. A parte quattro o cinque, ve ne
sono molti altri che non hanno dimensioni adeguate: come Assofondipensione
vogliamo aiutarli a trovare soluzioni consortili che permettano di sfruttare
meglio le nuove opportunità offerte dai mercati finanziari». Oggi i fondi
pensione investono circa il 60% degli attivi in titoli governativi, per lo più
italiani. «Il tema all’ordine del giorno è come dirottare maggiori risorse
verso l’economia reale — spiega Tronconi —. Il 20% di attivi che possono
gestire direttamente potrebbe essere investito in fondi di private equity,
mini-bond o fondi chiusi infrastrutturali: abbiamo avviato contatti con la Cassa depositi e prestiti
per vedere cosa si può fare. In questo modo si avrebbero ricadute positive
sull’occupazione». L’anno scorso molte
linee azionarie e bilanciate hanno ottenuto performance a due cifre: il
risultato migliore è stato il 17,6% dell’azionaria di Mediafond (gruppo
Mediaset), seguita con il 16,5% da quell’analoga di Fondaereo (piloti e
assistenti di volo). Hanno chiuso in positivo tutti i comparti, e buoni
risultati sono stati ottenuti anche dai tre fondi maggiori, Cometa, Fonte
(commercio, turismo e servizi) e Fonchim. A parte le performance, comunque, un altro fattore gioca a favore dei fondi
pensione, rispetto alla decisione di mantenere il Tfr in azienda. E’ il
contributo aziendale, pari in media all’1,2-1,5% della retribuzione lorda, cui
ha diritto solo chi aderisce. Questa voce fa davvero la differenza: lo
dimostrano gli esempi, relativi ai tre fondi maggiori, di lavoratori che hanno
aderito alla partenza del fondo, a confronto con i loro colleghi che invece
hanno lasciato il Tfr in azienda. Al 31 dicembre scorso, un metalmeccanico con
uno stipendio di 23mila euro lordi che il primo gennaio 1997 ha aderito alla linea
bilanciata di Cometa ha maturato un montante di 33.133 euro, contro i 26.477
accantonati da un suo collega che ha mantenuto il Tfr in azienda. Con Fonte
(retribuzione di 21.500 euro e adesione il primo marzo 2004) siamo
rispettivamente a 22.110 e 17.738 euro; infine per Fonchim (stipendio di 30mila
euro e iscrizione il 14 marzo 1997) il totale è di 87.115 per chi si è iscritto
e di 63.618 euro per chi invece ha lasciato il Tfr in azienda. In tutti i casi
sono state considerate le stesse voci, in modo da rendere omogeneo il
confronto. Quest’ultimo, peraltro, non tiene conto del trattamento fiscale, che
nella previdenza complementare è decisamente più favorevole.
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