venerdì 18 agosto 2017

LICENZIATO IL DIPENDENTE IN MALATTIA CHE LAVORA

Di per se stessa non sarebbe una notizia, ma un atto di giustizia verso un comportamento esecrabile. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 17636/2017 dello scorso 18 luglio.
La Corte si è trovata in sintonia con quanto stabilito dalla Corte d’appello di L’Aquila che aveva dato torto al dipendente malato che per l’appunto era stato trovato intento a lavorare i campi e a utilizzare il trattore finendo per ritardare il processo di guarigione, successivo ad un intervento chirurgico al menisco. Il ricorrente ha presentato diversi motivi di ricorso, tra cui la circostanza che l’attività agricola prestata fosse sporadica così come sembrava sproporzionata la misura rispetto al comportamento contestato. Ma la Cassazione – a fronte di una Ctu medico-legale che evidenziava il ritardo nella guarigione per effettuare un’attività fisica pesante come quella della legatura delle viti e della guida di un mezzo agricolo – non ha potuto esprimersi in maniera differente non essendo consentito entrare nel merito della questione. Così come non ha potuto esprimersi sul concetto di proporzionalità tra licenziamento e comportamento alla base della misura.
In questo caso, precisano i giudici, si tratta di una valutazione che riguarda datore e prestatore. E quindi nel caso in cui a fronte di un comportamento irregolare del prestatore, il datore non riponga più nel primo la fiducia con la rottura dell’apposito vincolo la misura deve essere ritenuta assolutamente corretta. Si legge nella decisione che è determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Già ad inizio d'anno la suprema Corte aveva espresso il medesimo parere con la sentenza 3630 del 10 febbraio. Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda proposta da un dipendente delle Poste, volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa, che gli era stato intimato per aver lavorato due giorni, ripreso da un investigatore privato, nella rosticceria della moglie, mentre era assente dal lavoro per infortunio. La Corte d’appello, infatti, nel compiere tale valutazione, aveva “evidenziato che quello posto in essere dal lavoratore era comportamento grave, incidente sul dovere fondamentale del dipendente di rendere la prestazione di lavoro e lesivo del vincolo fiduciario, anche in ragione del carattere doloso, desumibile anche dalla prima negazione dei fatti”.

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